Il velo del cantico
Il velo del Cantico.
La lettura del Cantico dei Cantici in chiave simbolica
È un dono reciproco e una scommessa quella di riuscire a penetrare il senso complessivo del Cantico dei Cantici nel breve tempo di un’ora; o almeno dare un bagliore di luce che possa invogliare molti di voi ad andare a commenti più ampi per approfondirne il tema e la comprensione. Spero di riuscire: che davvero lo Spirito illumini me che parlo e voi che ascoltate, perché si faccia sintonia su questo testo, il “Santo dei Santi” della Scrittura.
Vorrei introdurmi con questa citazione di S. Teresa:
(dai Pensieri sull’amore di Dio, 1,1)
“Solo le anime che sentono il bisogno di trovare qualcuno che spieghi loro ciò che passa fra l’anima e Dio potranno capire quanto si soffra nel non averne l’intelligibilità. A me il Signore, da qualche anno a questa parte, ha fatto provare una grande consolazione tutte le volte che odo o leggo alcune parole del Cantico dei Cantici di Salomone, al punto che – senza intendere chiaramente il significato del latino tradotto in volgare – mi sento raccogliere e commuovere l’anima più che dalla lettura di libri assai devoti che comprendo pienamente”[1]
S. Teresa è testimone di quel lungo periodo d’inverno della nostra chiesa, durato per quattro secoli, in cui non era possibile leggere la Bibbia in lingua volgare, e ai soli maschi (viris) era concesso di leggerla in latino, ma sotto il permesso – ovvero il controllo – del proprio direttore spirituale. E sempre S. Teresa dice, a proposito del Cantico:
“Vi sembrerà forse che certe cose del Cantico dei Cantici si sarebbero potute dire in altro modo. Non me ne meraviglierei, considerata la nostra grossolanità; ho anche sentito dire da alcune persone che evitavano di ascoltarle. Oh, Dio mio, quanto è grande la nostra miseria! Ci accade come a quegli animali velenosi che trasformano in veleno tutto ciò che mangiano: da così grandi grazie come son quelle che qui il Signore ci concede nel farci conoscere quel che prova un’anima che lo ama, mentre egli ci incoraggia a trattenerci in colloquio e a gioire con lui, non sappiamo trarre altro che paure e dare alle sue parole significati che riflettono la debolezza del nostro amore per il Signore”.[2]
Quello che vogliamo fare, in effetti, è prendere questo libro che “sporca le mani”[3] e coglierne il profondo valore. Abbiamo tra le mani un libro che riporta 14 epigrammi amorosi; numero significativo (7×2), certo, ma è più significativo che questa sequenza di quadri descriva e scriva dell’amore. Non un amore platonico ma reale, concreto, umano.
Si veda l’inizio, subito dopo il titolo: è l’intonazione dell’intera sequenza di epigrammi:
“Vorrei che mi baciasse con i baci della sua bocca.
Sì, le tue tenerezze sono migliori del vino,
i tuoi profumi per fragranza sono ottimi,
olio balsamico è il tuo nome.
Per questo le ragazze ti amano!
Attirami dietro a te, corriamo!
Il re mi porti nelle sue stanze:
gioiamo, rallegriamoci in te
celebriamo le tue tenerezze più del vino.
Per questo le ragazze ti amano!”.
Questi epigrammi hanno subito nella storia dell’interpretazione diversi tentativi (o tentazioni?) di “riduzione”.
Le due riduzioni più evidenti, come scogli da superare – Scilla e Cariddi – sono l’allegoresi e la riduzione erotica. Entrambe queste due interpretazioni porterebbero il Cantico ad una riduzione di significato.
Una prima tentazione, comune a tutta la tradizione giudaica e anche patristica-medioevale, potrebbe essere definita, tecnicamente, un’allegoresi, ovvero una lettura allegorica. Se dovessimo assumere questa interpretazione, dovremmo subito dimenticare il “piano dell’amore umano”, quasi fosse non significativo, per andare al di là e scoprire l’“oltre” che il messaggio dice. È una tendenza a trascurare ciò che avviene sul palcoscenico della vita, per andare subito all’amore di Dio, come se questi potesse essere conosciuto senza passare attraverso l’esperienza umana. È una tentazione di sempre. La tradizione giudaica e cristiana in questo vanno di pari passi. Entrambe ci testimoniano una grande venerazione per il Cantico e la sua sacralità, ma anche una paura a immergersi dentro ai simboli concreti.
Cito dalla Mišnâ un detto di rabbi Akiva, un maestro di primo piano dell’inizio del II sec., sostenitore anche della seconda rivolta giudaica. Egli disse:
“In Israele nessuno ha mai negato, riguardo al Cantico, che esso sporchi le mani, poiché il mondo intero non vale il giorno in cui fu dato a Israele il Cantico… Tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico è il Santo dei Santi”.
Un altro detto, preso dal Midraš al Cantico, conferma la medesima venerazione:
“Un re diede ad un mugnaio un moggio di frumento (circa 4 quintali) e gli disse: Ricavane dieci staie di farina scelta. Poi tornò e gli disse: Da queste dieci staie, ricavane sei. E poi ancora: Da queste sei ricavane quattro. E così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Tôrâ scelse i profeti, dai profeti gli scritti, ma tra tutti scelse il Cantico dei Cantici”.
Per darci l’intonazione di questa tradizione giudaica, ricordiamo anche il giudizio di un grande grammatico medioevale, Abraham Ibn Ezra, il quale diceva:
“Ci si guardi bene dal pensare che il Cantico sia una composizione erotica. No, esso è scritto a modo di allegoria! Che se la sua interpretazione non fosse sublime, non sarebbe annoverato tra i Libri Santi, e la discussione a suo riguardo non avrebbe concluso che ‘sporca le mani’”.
La tradizione giudaica, alla pari di quella cristiana, per giustificare il fatto che il Cantico sia considerato tra i Libri sacri, quasi fa dimenticare la concretezza, da cui il simbolo prende le mosse, ovvero la profondità dell’amore di un uomo e di una donna, di un lui e di una lei, non ancora sposati, ma in preparazione del loro giorno di nozze; poi nel giorno delle nozze e poi nell’avventura che sfuma nella vita, che comprende tutta la vita, senza limite di tempo. Più che i singoli momenti di vita, tuttavia, è cantata la dimensione dell’amore.
Il Cantico, in queste due tradizioni interpretative, è divenuto quasi un trampolino per parlare dell’amore di Dio per il suo popolo. Cosa importante ma non sufficiente. La filigrana simbolica di questa interpretazione è una condizione necessaria, ma diventa tentazione deviante, se questa lettura della storia di Jhwh con il suo popolo Israele dovesse diventare solo una specie di algebra astratta. No, la concretezza sta dentro, a partire dalla vita.
La seconda tentazione è la riduzione erotica del Cantico. Per averla, in senso proprio, dobbiamo attendere l’epoca moderna. Abbiamo due rappresentanti nel contesto italiano, che hanno lasciato una traduzione e un commento in questa linea: Giovanni Garbini e Guido Ceronetti.
Ceronetti, nell’introduzione della sua traduzione, scrive:
“Il cantico è vuoto. Non contiene niente. Non significa niente. Niente al di là della lettera, una canzone a due voci in cattiva copia, e tuttavia – rivelazione delle rivelazioni (pensaci bene: l’unica possibile, per un razionalista che non cancelli Dio e per un mistico che non corra dietro ad altre figure divine) – immagine pura di Dio, in quanto sterminato Nulla trascendente, lontananza di lontananze di cui il vuoto, la nudità interna erotica, significata dal sesso muliebre, è tra le fiamme e la notte del mondo umano un anatomico bagliore, una porta di desiderio. Per questo, solo per questo il Cantico è un santo dei santi e Scrittura che brucia le mani”[4].
È vero che chi non ha un senso, non può percepisce l’oggetto di quel senso: chi manca di olfatto non può annusare… deve fare altro! Vale anche per i commentatori dei testi biblici…
Dunque, non allegoria, non canto erotico, ma simbolo, vale a dire: contemplazione della realtà umana per raggiungere una profondità e una visione sintetica capace di svelare Dio o “ri-velare” Dio. Insieme a questo svelamento, si dà un “ricominciamento” dell’essere umano. Quando uno scopre se stesso, la propria identità, la propria figura e la propria vocazione, cammina e va…
Vorrei, quindi, percorrere le coordinate simboliche, per comprendere dall’interno l’esperienza concreta dell’amore – di “lui” e di “lei” – in modo che appaia chiaramente in che senso io intenda il valore simbolico del Cantico. Proprio come insegna il Libro dei Proverbi al cap. 30,18-19:
18 šelōšâ hēmmâ niple’û mimmennû
we’arbā‘â lō’ jeda‘tîm
19 derek hannešer baššāmajim
derek nāhāš ‘ălê sûr
derek-’onîjâ beleb-jām
wederek geber be‘almâ
“Tre sono le meraviglie più grandi di me,
anzi quattro quelle che io non comprendo:
la scia dell’aquila nel cielo,
la scia della nave nel cuore del mare,
la scia del serpente sopra la roccia,
la scia dell’uomo nella donna”.
Come sempre, i Proverbi sono costruiti per attirare l’attenzione. Tre cose sono ben chiare e comprensibili nella loro via nascosta: la scia che scompare dell’aquila, della nave, del serpente sulla roccia. La quarta – il sentiero dell’uomo nella donna – è il mistero da scoprire. Qui non si tratta di un elemento esclusivamente visivo, ma di una realtà che rivela.
Il sentiero dell’uomo nella donna è il Cantico.
Elementi simbolici presenti nel Cantico
Parto dall’analisi dei diversi elementi simbolici presenti nel Cantico; è una rassegna, quasi un’esposizione della tavolozza utilizzata da questo poeta. Si potrebbe fare il confronto con altri poeti. Per Garbini, ad es., il Cantico sarebbe influenzato in maniera massiccia dalla poesia di Teocrito, da cui deriverebbe, come una specie di risposta giudaica alla lirica erotica ellenistica. Potrebbe essere che ci siano degli echi, perché no? Personalmente, ne sono poco convinto, perché se si legge la letteratura complessiva dell’Antico Vicino Oriente sul tema dell’amore, si vede che gli echi si rincorrono dal 1500 a.C. fino alla soglia dell’era cristiana. C’è un patrimonio simbolico comune e l’originalità sta invece nell’immersione di questi simboli nella tradizione della storia d’Israele confessata dalla Bibbia.
Il simbolo dell’acqua
L’elemento acquatico è molto ricco di armoniche e di simboli, proprio per esprimere la nascita: nasciamo dall’acqua! La vita nasce dall’acqua. I filosofi presocratici (che non sono coloro che vengono prima di Platone, bensì gli epigoni del pensiero dell’Antico Vicino Oriente), riferendosi all creazione come è narrata in Enuma eliš, parlano dell’acqua come elemento originario.
Nella tradizione biblica, in riferimento all’amore, il simbolo è soprattutto l’acqua del pozzo. Nei racconti patriarcali, il pozzo è spesso il luogo in cui l’incontro di amore si concretizza: il servo di Abramo che va alla ricerca di una moglie per Isacco e trova Rebecca al pozzo; oppure Giacobbe, che arriva in terra di Aran Naharaim e incontra Rachele al pozzo, e trasgredisce due leggi del luogo – lo spostamento della pietra prima che arrivino tutte le greggi e il bacio di Rachele, prima che ella gli sia presentata. O ancora, Mosè incontra la sua futura sposa Zippora presso il pozzo. Gesù stesso incontra la Samaritana al pozzo di Giacobbe (colei che ha avuto cinque mariti e nessuno di questi era suo marito).
La letteratura biblica conosce molti riferimenti al pozzo, in senso positivo e negativo. Il testo dei Proverbi, al cap. 5,15-20:
15 Bevi l'acqua della tua cisterna
e quella che zampilla dal tuo pozzo,
16 perché le tue sorgenti non scorrano al di fuori,
i tuoi ruscelli nelle pubbliche piazze,
17 ma siano per te solo
e non per degli estranei insieme a te.
18 Sia benedetta la tua sorgente;
trova gioia nella donna della tua giovinezza:
19 cerva amabile, gazzella graziosa,
essa s'intrattenga con te;
le sue tenerezze ti inebrino sempre;
sii tu sempre invaghito del suo amore!
20 Perché, figlio mio, invaghirti d'una straniera
e stringerti al petto di un'estranea?
O ancora Sir 26,12:
12 Come un viandante assetato apre la bocca
e beve qualsiasi acqua a lui vicina,
così essa siede davanti a ogni palo
e apre a qualsiasi freccia la faretra.
L’acqua è simbolo ambivalente. Il Cantico utilizza questo simbolo in senso positivo. La donna è una fonte sigillata, chiusa: un giardino tutto per il suo lui. Nel cap. 4,12-15:
12 Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.
13 I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
14 nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie d'alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.
15 Fontana che irrora i giardini,
pozzo d'acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.
Un giardino recintato, con acque che provengono dal monte più alto, dove abitano le divinità: un’acqua incontaminata, che alimenta un pozzo sigillato. Ecco il mistero di poter condividere quest’acqua. È il mistero del sentiero dell’uomo nella donna.
Il simbolo del fuoco
Il fuoco è un simbolismo universale per parlare dell’ardore dell’amore. Penso che tutte le lingue utilizzino questo simbolo. I simboli infatti si possono tradurre facilmente da una lingua all’altra, perché fanno riferimento ad un’esperienza umana comune. Le metafore, al contrario, difficilmente possono essere tradotte da una lingua all’altra; devono essere ricreate. I simboli, essendo sulla soglia tra l’esperienza e il linguaggio sono universali.
Il fuoco è uno dei simboli più universali in riferimento all’amore. Per quanto riguarda la letteratura sapienziale della Bibbia, il fuoco sembra essere usato solo negativamente. Un testo dal Libro dei Proverbi e uno dal Libro del Siracide sottolineano la dimensione negativa.
27 Si può portare il fuoco sul petto
senza bruciarsi le vesti
28 o camminare sulla brace
senza scottarsi i piedi?
29 Così chi si accosta alla donna altrui,
chi la tocca, non resterà impunito (Pro 6,27ss)
16 Due specie di colpe moltiplicano i peccati,
la terza provoca l'ira:
17 una passione ardente come fuoco acceso
non si calmerà finché non sarà consumata;
un uomo impudico nel suo corpo
non smetterà finché non lo divori il fuoco;
per l'uomo impuro ogni pane è appetitoso,
non si stancherà finché non muoia (Sir 23,16s)
Eppure c’è una valenza positiva del simbolo del fuoco nel Cantico. Il fuoco, come tutti i grandi simboli, è ambivalente. Il fuoco scalda e distrugge. L’ambivalenza del simbolo faceva amare il simbolo del fuoco soprattutto per parlare di Dio, il Santo, il fascinans et tremendum: ci si avvicina, come in una notte fredda per scaldarsi, ma con il suo numinoso apparire allontana, crea timore. I poeti hanno sempre collegato amore e fuoco. Si potrebbero facilmente citare tante pagine delle nostre liriche.
Nel simbolismo generalmente negativo della Bibbia ebraica, appare ancora più eccezionale quel passo che leggiamo nel Cantico (qualcuno considera questo passo quasi un’aggiunta) cap. 8,6-7:
“Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo polso,
perché forte come Morte è amore,
tenace come Še’ol è gelosia.
Le sue fiamme sono fiamme di fuoco,
vampe di Jah!
Le grandi acque non riusciranno a spegnere l’amore,
né le correnti a travolgerlo.
E se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio di amore,
ne avrebbe in cambio solo disprezzo”.
La cosa sarebbe decisiva se, come ho tradotto, qui ci fosse davvero l’unico riferimento a Jhwh (Adonai). In effetti, si potrebbe tradurre anche diversamente. Ma non voglio perdere questo unico, diretto riferimento al Dio Jhwh nel Cantico: un’allusione ad una nuova forma di teofania – l’amore! Non si cancella il sentiero dell’uomo nella donna, ma quel sentiero non è solo umano: è teofania.
Il simbolo della bellezza
La bellezza non ha bisogno di dimostrazioni, non bisogna argomentare sulla bellezza. La bellezza si dà. È. Nel racconto di Genesi, l’inno iniziale, si ricorda che Dio vide le realtà create e ciascuna “era bella” (tôb). Alla fine vide tutto quanto aveva fatto – la settima volta – ed era “molto bello”. La bellezza si constata. Il Cantico è una sinfonia della bellezza, perché è come una ripresa melodica variata di tutti i suoi possibili risvolti: a livello uditivo, olfattivo, visivo, nelle percezioni esteriori come nei sentimenti interiori. Bisognerebbe scorrere – anche se velocemente – tutto il testo. La descrizione della primavera in 2,14s:
“Colomba mia, che stai nelle crepe del monte,
nel nascondiglio del dirupo,
mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce,
perché la tua voce è dolce
e il tuo viso è bellissimo”.
Oppure, per la voce, nel cap. 8,13-14:
“Tu che abiti nel giardino,
mentre i tuoi compagni sono in ascolto.
Fammi sentire la tua voce!
Fuggi, mio diletto, come una gazzella
o come un cerbiatto sopra i monti degli aromi”.
Quanto agli odori e ai sapori, tutti gli aromi di quella ricca terra sono “convocati” per una orchestrazione completa. Si parla del narciso dello Sharon (potrebbe essere il giglio o la rosa) oppure della vigna in fiore (non in frutto); o ancora di tutte quelle spezie caratteristiche dell’oriente: mirra, i vari componenti dell’incenso, i fiori del melo (non il frutto), delle viti e del fico, il cedro del Libano (nel momento in cui la resina lascia espandere la sua fragranza inebriante in una foresta di cedri). Un sapore che eccelle su tutti è il vino, ambivalente simbolo di gioia e stordimento, ebbrezza e ubriacatura. Gli odori e i sapori diventano il luogo e il simbolo dell’amore. Per chi conosce la terra di Israele, l’evocazione di tutti gli odori e i sapori è un richiamo preciso a un luogo, a un ambiente… Il cedro è al nord, nella catena del Libano. Invece i sapori delle spezie sono nei mercati, nei suq della città oppure nel profondo deserto. La pianura mediterranea con la sua macchia ha un profumo caratteristico di ginestra…
E ancora, per la bellezza: le visioni. Luce e tenebra, notte e giorno si alternano, come nella vita per creare il ritmo dell’amore. Le due luci maggiori sono il coronamento di questa bellezza, che è splendore, irradiazione. Come la luce dà forma e colore alle cose che pure sussistono anche di notte, invisibili, così amore nei confronti della vita. Se non ci fosse questa luce dell’amore, tutto sarebbe senza forma, come dice nel cap. 6,10 l’epigramma del corteo del rito matrimoniale:
“Chi è costei che sorge come l’aurora,
bella come la luna,
fulgida come il sole,
terribile come schiere a vessilli spiegati”.
Il sole in ebraico è femminile, la luna maschile (come in tutte le lingue semitiche): è lei la sorgente della luce, quasi che questa stia nella bellezza dell’amata. Da qui che si irraggia la luce sull’amato.
Ma la bellezza è minacciata e noi siamo coloro che la minacciano. Vediamo un fiore, lo cogliamo e per vederne la bellezza lo uccidiamo; vediamo un cervo lo cacciamo per possederne i trofei. Il Libro dei Proverbi anche se non usa questi simboli, similmente però paragona la bellezza a qualcosa di molto delicato che viene distrutta dalla nostra volontà di potere. In Pro 7,22-23 si dice, a proposito del rapporto tra l’uomo e la donna straniera (la prostituta):
22 Egli incauto la segue,
come un bue va al macello;
come un cervo preso al laccio,
23 finché una freccia non gli lacera il fegato;
come un uccello che si precipita nella rete
e non sa che è in pericolo la sua vita.
La bellezza è minacciata dalla vita stessa. È sempre il Libro dei Proverbi a ricordarcelo (non deve sorprendere la frequentazione di questo Libro: è la sapienza e l’esperienza di vita che si manifestano). Dice il Libro dei Proverbi, alla conclusione del cap. 31, uno dei più bei poemi acrostici della Bibbia:
“Fallace è la grazia, vana è la bellezza.
La donna che teme Dio è da lodare.
Datele del frutto delle sue mani
e le sue stesse opere la lodino alle porte della città”.
Il Cantico è soprattutto attento a cantare i movimenti della bellezza. Se c’è una particolarità nel simbolismo del Cantico, essa sta nel movimento di bellezza: “quanto sei bella, quanto sei graziosa, amore, figlia di delizie”. Tutto il Cantico è una canzone alla bellezza dell’amata, evocando i paragoni possibili – e vedremo quale è il centro di questo simbolismo – ed evocando tutte le perle preziose e le varie possibilità in cui si esprime l’ornamento della bellezza.
La bellezza è minacciata dallo stesso amore (esperienza molto umana!): essa ha bisogno di essere protetta persino dall’amore.
“Una sorella piccola è a noi data,
non ha ancora i seni.
Che cosa dovremo fare per nostra sorella,
nel giorno in cui si parlerà di lei?
Se fosse un muro le costruiremmo un recinto d’argento attorno,
se fosse una porta la rafforzeremmo con tavole di cedro.
Io sono un muro, e i miei seni sono delle torri.
Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato pace!” (8,8-10).
L’amata diventa una cittadella da difendere, a meno che l’amato stesso non si presenti a lei…
Il simbolo della corporeità
C’è una lirica molto amata da Simone Weil, di George Herbert (poeta inglese metafisico del XVII sec.), eloquente per trattare il prossimo simbolo, la corporeità, un simbolo centrale per l’interpretazione, che svela il limite di incomprensione da parte della lettura allegorica o erotica.
LOVE
Love bade me welcome: yet my soul drew back,
Guiltie of dust and sinne.
But quick-ey'd Love, observing me grow slack
From my first entrance in,
Drew nearer to me, sweetly questioning,
If I lack'd any thing,
A guest, I answer'd, worthy to be here:
Love said, You shall be he.
I the unkind, ungrateful? Ah my deare,
I cannot look on thee.
Love took my hand, and smiling did reply,
Who made the eyes but I?
Truth Lord, but I have marr'd them: let my shame
Go where it doth deserve.
And know you not, sayes Love, who bore the blame?
My deare, then I will serve.
You must sit downe, sayes Love, and taste my meat:
So I did seat and eat.
L'Amore mi fece segno di entrare, ma l'anima mia,
colpevole di polvere e di peccato,
indietreggiò.
Allora il chiaroveggente Amore, vedendomi esitare
fin dai miei primi passi,
mi si fece vicino, con dolcezza chiedendo
che cosa mi mancava.
Un invitato, risposi, degno di essere qui.
L'Amore disse: Sarai tu.
Io il malvagio, l'ingrato? Ah mio diletto,
io non posso guardarti.
L'Amore mi prese per mano, e sorridendo replicò:
Chi fece questi occhi, se non io?
È vero, Signore, ma io li ho contaminati:
che se ne vada la mia vergogna, dove merita.
E non sai tu, disse l'Amore, chi si caricò del biasimo?
Mio diletto, allora servirò.
Siedi, disse l'Amore, e gusta del mio cibo.
Così mi sedetti e mangiai.[5]
Parabola davvero esemplare di come la bellezza, anche la bellezza della nudità e della corporeità possa essere traguardata. E l’amore del Cantico è amore che passa attraverso la corporeità, ma non si ferma alla fisicità. È una “corporeità spirituale” (non nel senso platonico) proprio come Genesi racconta la bellezza del rapporto dell’uomo e della donna – nel cap. 2 “e i due erano nudi, loro, ma non ne provavano vergogna”.
Nel Cantico c’è proprio questo sorprendente realismo corporeo che non è una rappresentazione plastica. Trasformare in figura questa modalità della Parola, plasmare la corporeità spirituale non penso sia facile. È una Parola che riplasma il corpo umano come se fosse un corpo ancora genesiaco; si tratta di riandare a quella semplicità, profondità e innocenza dell’uomo e della donna nel Giardino. Abbiamo tante descrizioni; ne prendo tre.
La prima nel cap. 4,1-7 che potremo titolare “il canto del corpo”:
1 Come sei bella, amica mia, come sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre,
che scendono dalle pendici del Gàlaad.
2 I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte procedono appaiate,
e nessuna è senza compagna.
3 Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo.
4 Come la torre di Davide il tuo collo,
costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di prodi.
5 I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
6 Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò al monte della mirra
e alla collina dell'incenso.
7 Tutta bella tu sei, amica mia,
in te nessuna macchia.
Oppure nel cap. 5,10-16, la bellezza dell’amore maschile cantata da lei:
10 Il mio diletto è bianco e vermiglio,
riconoscibile fra mille e mille.
11 Il suo capo è oro, oro puro,
i suoi riccioli grappoli di palma,
neri come il corvo.
12 I suoi occhi, come colombe
su ruscelli di acqua;
i suoi denti bagnati nel latte,
posti in un castone.
13 Le sue guance, come aiuole di balsamo,
aiuole di erbe profumate;
le sue labbra sono gigli,
che stillano fluida mirra.
14 Le sue mani sono anelli d'oro,
incastonati di gemme di Tarsis.
Il suo petto è tutto d'avorio,
tempestato di zaffiri.
15 Le sue gambe, colonne di alabastro,
posate su basi d'oro puro.
Il suo aspetto è quello del Libano,
magnifico come i cedri.
16 Dolcezza è il suo palato;
egli è tutto delizie!
Questo è il mio diletto, questo è il mio amico,
o figlie di Gerusalemme.
Oppure quest’altra descrizione, che si spiega tenendo conto del movimento della danza. La domanda di partenza è: “Che cosa ammirate nella Sulammita (in ebraico il femminile di Salomone), mentre danza a doppio passo?”. Vedendo la danzatrice si è attirati soprattutto dal movimento dei piedi (7,1-7):
1 «Volgiti, volgiti, Sulammita,
volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti».
«Che ammirate nella Sulammita
durante la danza a due schiere?».
2 «Come son belli i tuoi piedi
nei sandali, figlia di principe!
Le curve dei tuoi fianchi sono come monili,
opera di mani d'artista.
3 Il tuo ombelico è una coppa rotonda
che non manca mai di vino drogato.
Il tuo ventre è un mucchio di grano,
circondato da gigli.
4 I tuoi seni come due cerbiatti,
gemelli di gazzella.
5 Il tuo collo come una torre d'avorio;
i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn,
presso la porta di Bat-Rabbìm;
il tuo naso come la torre del Libano
che fa la guardia verso Damasco.
6 Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo
e la chioma del tuo capo è come la porpora;
un re è stato preso dalle tue trecce».
7 Quanto sei bella e quanto sei graziosa,
o amore, figlia di delizie!
Chi guarda con accento oggettivante, chi vuole a tutti i costi rimarcare l’elemento erotico, cosifica la trasfigurazione della contemplazione cui invece ci ha portato il poeta. Niente di quanto ho letto, sia pure tenacemente corporeo, è tuttavia solleticante. Non vi è desacralizzazione del corpo. Si ha una descrizione realistica, non cosificante; una trasfigurazione poetica del corpo. La pornografia ha il difetto di cosificare l’esperienza personale dell’amore. Queste parole, invece, sono esattamente la personalizzazione dell’amore. Ciò che caratterizza la descrizione di questi corpi non è la fisicità bruta, la corporeità lasciata a sé, ma la relazione interpersonale che sfocia nella sovrabbondanza anche dei pronomi personali, soprattutto in quel ritornello che ricorre più volte nel Cantico:
dôdî lî wa’anî lô harō‘eh bašsôšānîm
“Il mio amato è per me e io per lui, lui che pascola tra i gigli”.
Non vi sono nel Cantico elementi particolari di analisi psicologica. Sarebbe anacronistico trovarne. Non possiamo chiedere ad un testo del III sec. a. C. la caratteristica di un testo post-romantico. Piuttosto dobbiamo dire che la capacità di concentrarsi su queste due persone parla da sé un linguaggio che è corporeo, ma non fisicista.
La decifrazione del simbolo corporeo non fisicista è data dall’analisi del simbolo seguente.
Il simbolo del paesaggio: la madre terra
Tutte le culture hanno questa espressione religiosa della madre terra, però nessuna più della cultura di Israele, dove ’eres non è tanto un oggetto, ma un “personaggio” della vicenda. La storia di Israele è composta da tre personaggi: Jhwh, il popolo e la terra (’eres).
E si capisce, in questo contesto biblico, il riferimento alla terra come legame a qualcosa di vitale. Anche nella nostra cultura c’è un tale riferimento, ma ormai morto. Le metafore che parlano della madre terra sono morte. Ad. es.: Piemonte (i piedi del monte), golfo (il grembo), bocca (bocche di Bonifacio), oppure capo (Capo di Bella Speranza), o gola (vallata stretta tra due monti), l’insenatura (per parlare del seno). Nel Cantico le metafore sono ancora vive. Le immagini del corpo e della terra di Israele fanno un tutt’uno. Ecco il segreto della trasfigurazione del bellezza corporea.
Se andiamo con la mente a quelle immagini si scopre il segreto di un paesaggio che è corpo e di un corpo che evoca il paesaggio. Questa la ragione per cui non c’è una fisicità brutale ma una trasfigurazione, un canto del corpo che diventa la terra madre. Il centro rimane la persona, il corpo dell’amato o nel cap. 5 il corpo dell’amato. Bisogna sottolineare la fusione tra il paesaggio e la bellezza umana, proprio perché qui si rivela la cifra simbolica dell’unico Dio creatore, colui che ha creato la terra è colui che ha creato anche il corpo dell’uomo e della donna.
Il simbolo spaziale
Vicinanza e lontananza sono due simboli eloquenti dell’amore, anche dell’esperienza di Dio. L’amante è colui che attende e colui che non si fa trovare, l’amata è colei che attende e nello stesso tempo si nasconde, schiva come una colomba pronta alla fuga, piena di paura (di timore, meglio). Viene dal Libano, da lontano, dall’alto. Dall’altra parte i luoghi dell’amore più spesso citati sono la casa e la campagna. Sono due spazi tra loro complementari, eppure molto familiari. La casa come luogo di “appartamento”, la campagna come uno spazio aperto, “esposto”. In entrambi i casi si tratta di luoghi di intimità, di solitudine. In questo si contrappongono alla città, che pur essendo protetta da mura, da bastioni è uno spazio di lontananza, di ricerca (inizio del cap. 3):
1 Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l'amato del mio cuore;
l'ho cercato, ma non l'ho trovato.
2 «Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l'amato del mio cuore».
L'ho cercato, ma non l'ho trovato.
3 Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:
«Avete visto l'amato del mio cuore?».
4 Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l'amato del mio cuore.
Lo strinsi fortemente e non lo lascerò
finché non l'abbia condotto in casa di mia madre,
nella stanza della mia genitrice.
Vicinanza e lontananza sono due dimensioni dell’amore che si compenetrano. Sembra anzi che la vicinanza significhi il desiderio di colui che è lontano e la lontananza sia l’occasione del desiderio per avere l’amata più vicina. La memoria va subito al Salmo 42-43:
“Come il cervo grida lungo le correnti d’acqua,
così l’anima mia grida a te o Dio”.
In quel Salmo è descritta la stessa esperienza, a partire dal simbolo animale del cervo che grida. Vi sarebbero come due livelli di anima: quello che viene a contatto con la critica degli altri, espressa nella domanda: “dov’è il tuo Dio”; e l’altro invece più profondo che “spera in Lui, ancora lo loderò Lui mia salvezza, mia presenza e mio Dio”. Da questo conflitto che vince la paura di rimanere lontani dal proprio Dio, il ritornello del Salmo apre progressivamente alla speranza:
“perché ti abbatti anima mia,
perché ti ripieghi in me?
Spera in Dio,
Lui mia salvezza, mia presenza, mio Dio”.
È lo stesso modo per esprimere l’amore tra l’uomo e la donna.
San Giovanni della Croce riprende nel suo cantico spirituale il medesimo simbolo: “Perché tu sei fuggito e non hai portato con te quanto hai rubato?”. Alla fine non c’è un luogo fisico d’incontro, ma il luogo di lui è lei, quello di lei è lui: il vero luogo dell’incontro – e questa è la bellezza del Cantico – è il mistero dell’uomo nella donna.
Il simbolo materno
Il Cantico non parla della gioia e della speranza dei figli, non perché non si voglia guardare a questo approdo, ma perché sono i figli stessi che si affacciano all’amore, sono i giovani cantati nel Cantico che entrano a formare una nuova famiglia e ad aprirsi al mistero dell’amore. I figli sono il simbolo del futuro; il Cantico è un canto del presente, del giorno di nozze. Difatti, la festa di nozze sta nel mezzo del libro. Per i figli, il possessivo esprime davvero il massimo della condivisione e dell’altruismo. Quando lo sposo dice alla sposa: “Guarda che cosa ha fatto questo tuo figlio!”, significa in realtà il massimo del coinvolgimento. Il figlio non separa i due, ma li unisce. E se il dono è sempre qualcosa che esprime il coinvolgimento – nel migliore dei casi, tuttavia, il dono rimane uno scambio reciproco che esprime amore – per i figli c’è qualcosa di più, perché ciascuno si compromette nell’altro, pienamente. Il figlio è la memoria di questo dono vicendevole di sé. Il fatto che il Cantico non parli dei figli è perché appunto questa relazione è colta nel momento iniziale, nel giorno di nozze, quando gli sposi sono i figli stessi che ormai gemmano per un’altra vita. I due amanti sono colti nelle loro relazioni, soprattutto in funzione di un futuro, di una nuova strada, di una nuova famiglia.
C’è però soprattutto la relazione con la madre della sposa: “Ti condurrò nella casa di mia madre”. Perché questo amore particolare per la relazione materna? Probabilmente perché se l’amore è forte come la morte, esso è soprattutto forte per la vita. “Sotto un melo ti ho ridestata” dice il Cantico alla fine. La nuova fecondità è ridestata dal nuovo incontro dei due amanti che si allontanano dal grembo materno, non solo fisicamente ma realmente, per unirsi verso una nuova vita. È un congedo dalla casa della madre.
I simboli del pastore, vignaiolo e re
Così dall’altra parte, accanto al simbolo materno che si scioglie verso il futuro, abbiamo i simboli dell’amato che si moltiplicano: l’amato è pastore, vignaiolo, re. Tra questi tre simboli evocativi, c’è una tessitura comune perché il legame tra pastore e amante è comune a tante letterature, non solo in quella biblica. Il ritornello del Cantico lo esprime bene: “Il mio amato è per me, io per lui, lui pastore tra i gigli”. L’amato che diventa la vigna (Is 5) e il vignaiolo stesso.
Il penultimo epigramma in riferimento a Salomone che, nella tradizione biblica è ricordato aver avuto mille concubine (8,11-12):
11 Una vigna aveva Salomone in Baal-Hamòn;
egli affidò la vigna ai custodi;
ciascuno gli doveva portare come suo frutto
mille sicli d'argento.
12 La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti:
a te, Salomone, i mille sicli
e duecento per i custodi del suo frutto!
È l’epigramma più bello per esprimere il simbolo di questo contrappunto tra il vignaiolo e il re. Se Salomone poteva concedersi il lusso di mettere la vigna nelle mani dei custodi, questo amante invece ha la sua sola vigna. Forse un ideale di monogamia che si fa presente attraverso questo canto. Ne consegue che l’amante vignaiolo è anche il re della sua unica amata e così si spiegano i due nomi, Salomone e Sulammita. Perché evocare proprio Salomone e la Sullamita? Perché è il re più grande, non uno qualsiasi. L’amato diventa il più grande re per la sua amata; la festa nuziale è piena di suoni, odori, luci ed è per la incoronazione del re (3,9-11):
9 Un baldacchino s'è fatto il re Salomone,
con legno del Libano.
10 Le sue colonne le ha fatte d'argento,
d'oro la sua spalliera;
il suo seggio di porpora,
il centro è un ricamo d'amore
delle fanciulle di Gerusalemme.
11 Uscite figlie di Sion,
guardate il re Salomone
con la corona che gli pose sua madre,
nel giorno delle sue nozze,
nel giorno della gioia del suo cuore.
Un simbolo aperto…
In questa cornice simbolica sembra che l’amore diventi uno spazio chiuso, certo un paradiso, ma pur sempre chiuso, dove stanno i due amanti. Non è così. L’amore del Cantico è un simbolo aperto, se non altro per la totalità della creazione evocata perché – come una grande tavolozza – tutta la creazione è usata per dipingere la profondità dell’esperienza d’amore dei due giovani.
L’amore dunque è la rivelazione capace di trasfigurare l’intera creazione. Nell’amore l’uomo trascende se stesso e le sue capacità. In questo rilancio simbolico, l’uomo incontra la rivelazione che Dio è amore. Non che l’amore sia Dio…
La sua esperienza d’amore si incrocia con la rivelazione di Dio che è amore. L’uomo diventa dunque un simbolo aperto per comprendere in profondità l’eterno fuoco dell’amore divino.
Nel Cantico abbiamo un simbolismo coniugale – lui e lei – ma non sono due innamorati senza relazione vicendevole. Lui e lei si incontrano nell’amore e diventano quell’unità attorno alla festa regale del giorno nuziale. Il valore storico dell’amore coniugale è esattamente la profondità alla quale mira il simbolismo dell’amore. Questo non è soltanto del Cantico. È un’espressione poetica che viene da molto lontano, da Osea prima di tutto, da Geremia, da Isaia (cap. 54) e sfocia nel Cantico.
Il simbolismo coniugale come amore storico che guarda alla bellezza dell’originale fidanzamento e ricorda l’esplosione di quest’amore originario passa attraverso la crisi – il deserto – per arrivare al futuro dei figli. Tutto questo è simbolismo assunto ed evocato; simbolismo coniugale perché l’autore di questi epigrammi aveva bisogno dell’amore umano per sentire ed esprimere la verità dell’amore di Dio. A rivelare simbolicamente che l’amore di Dio è reale, a rivelare nella profondità e nella illogicità questo grande amore il nostro autore ha preso come esempio e paradigma l’amore umano. Perché il Dio dei profeti, il Dio di Gesù è uno, ma non è solo, è un Dio che da sempre ha cercato la relazione con l’altro.
Noi cristiani diciamo, nel nostro linguaggio talvolta un po’ troppo intellettualistico, che la Trinità esprime la comunione di Dio sin dall’inizio assoluto (non il momento “secondo” in cui ha inizio la storia). L’amore di Dio rivelato in Cristo Gesù diventa dunque la misura dell’amore umano.
È quanto ci dice l’apostolo scrivendo agli Efesini, quando evoca il mistero dell’amore dell’uomo e della donna nel giardino. La lettera agli Efesini (5,21ss), che tante volte viene usata nelle celebrazioni nuziali, è un po’ traditrice perché saremmo portati a interpretare in senso opposto a quello che in realtà dice: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” Tutti! Cristo come paradigma. Le mogli siano sottomesse ai mariti; se dovessimo soffermarci qui, dovremmo dire: “Che novità c’è mai?”. Questa è la cultura dell’epoca. “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore”. Questa è la rivoluzione! E per spiegarla l’apostolo ricorre a Genesi (2,24): “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola”. E continua: “questo mistero è grande e io lo dico in riferimento a Cristo alla chiesa”. Il testo di Genesi si svela nella sua misura e profondità guardando all’amore di Cristo. È l’originalità cristiana. “Ciascuno, da parte sua ami la propria moglie come se stesso e la donna sia rispettosa verso il marito”. Le strutture sociali rimangono come erano, ma cambiano radicalmente dall’interno, per questa rivoluzione del parametro. Non soltanto l’amore conduce a Dio, ma l’amore di Cristo diventa la misura del nostro amore. E questo è il Vangelo. È tutto il Vangelo. Proclamare che questa è la misura; il resto lo fa lo Spirito che lavora dentro di noi.
Una conclusione
Il Cantico si può leggere quindi simbolicamente non perché si debba leggere in maniera univoca come se fosse canto a una sola voce. Il Cantico è una polifonia in cui si esprime l’amore umano e nello stesso tempo si dà la percezione dell’amore di Dio, della storia di Dio che si rivela.
C’è una bellissima pagina che esprime adeguatamente ciò che voglio dire. Nelle lettere dal carcere, Dietrich Bonhoeffer (Resistenza e resa), scrivendo all’amico Eberhard Bethge, che doveva sposarsi in quei giorni, gli ricorda che la nostra vita si muove a due voci e anche il nostro amore è un contrappunto a due voci. Facendo riferimento alla legge dell’armonia scrive:
“È però il pericolo di ogni profondo amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore, non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l'amore terreno, ma in certo senso come cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Anche nella Bibbia c’è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cfr. 7,6!); è davvero un bene che faccia parte della Bibbia, come contrasto per tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l’uno e l’altro sono «divisi eppure indistinti», come lo sono in Cristo la natura divina e la natura umana”[6].
Questo mi sembra il senso del simbolismo del Cantico. Il basso cifrato (quello che si legge per l’armonia e ne dà le leggi) è l’amore dei Dio per il suo popolo. È la rivelazione del Cantico. Ma la melodia – quella che si sente – è in realtà la vicenda di questo lui e di questa lei. Senza cadere in allegorismi e dall’altra parte senza decurtare o appiattire il significato del Cantico tutto sulla prima voce, noi dobbiamo e possiamo leggere tutte le armonie dello spartito.
E si possono leggere lasciando che ciascuna esprima sino in fondo la sua potenzialità, senza perdere la melodia dell’amore umano – quella cantata – ma senza perdere neanche l’armonia che è stabilita dalla leggi dell’amore di Dio. La corporeità, contemplata da questi occhi, assicura all’amore umano tutto il suo realistico ruolo di protagonista. La profondità dell’esperienza di Dio, realizzata in una vita di amore autentico, rende simbolo eloquente ogni gesto di amore, conferendo ad esso la capacità di parlare di Dio attraverso il mistero di quel cammino dell’uomo nella donna.
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[1] Teresa d’Avila, (santa), Opere complete, a cura di L. Borriello - Giovanna della Croce, Traduzione di L. Falzone (= Letture Cristiane del Secondo Millennio 22), Milano, Paoline Editoriale Libri, 1998: 1423.
[2] Ivi, 1425s.
[3] Modismo ebraico per dire che è si tratta di un libro ispirato e quindi canonico.
[4] G. Ceronetti, Il Cantico dei Cantici (= Biblioteca Adelphi 58), Milano, Adelphi, 1975 [62001], 124s.
[5] The Metaphysical Poets, Selected and edited by H. L. Gardner (= Penguin Poets D38), Harmondsworth, Penguin Books, 1957 [31985], 140.
[6] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, a cura di Chr. Gremmels - E. & R. Bethge, in collaborazione con I. Tödt, Traduzione dal tedesco di A. Gallas - M. Zanini, Edizione italiana a cura di A. Gallas (= Biblioteca di Cultura 19 / Opere di Dietrich Bonhoeffer. Edizione critica 8), Brescia, Editrice Queriniana, 2002: 411.